Rizoartrosi
L’artrosi più frequente a livello della mano è la rizoartrosi o artrosi della base del pollice all’articolazione trapeziometacarpale (TM).
E’ una malattia estremamente frequente anche se spesso è ottimamente tollerata,caratterizzata in questi casi più dalla deformazione della base del pollice causata dalla perdita dei rapporti tra il trapezio ( piccolo ossicino del polso ) e la base del primo metacarpo, piuttosto che da veri e propri disturbi funzionali. E’ nettamente più frequente nel sesso femminile specie intorno alla sesta decade di vita.
L’articolazione TM (trapeziometacarpale) è ipersollecitata dal movimento di opposizione del pollice, cardine di tutti gli atti che coinvolgono la mano e il polso durante la vita relazionale e lavorativa. La conformazione geometrica della TM è definita “a sella” e garantisce una stabilità articolare capace di opporsi alle forze che tendono a destabilizzarla e che si producono specialmente nelle attività che comportono prese a pinza tra il pollice e l’indice.
La stabilità della articolazione è inoltre garantita dai robusti legamenti presenti che devono anche garantire l’ampia motilità su tutti piani caratteristica
della TM.
Quando il sovraccarico di funzione è prevalente sui fattori stabilizzanti l’articolazione, si assiste ad un progressivo degrado artrosico dei capi articolari con il caratteristico corredo sintomatologico. Dopo anni di ingravescente sintomatologia algica, specie nelle prese di forza che coinvolgono il pollice, in alcuni soggetti si assiste ad una progressiva e spontanea diminuzione dei disturbi accompagnata dall’aggravarsi dei segni radiografici di artrosi.
Questo curioso e apparentemente inspiegabile fenomeno è la conseguenza di una ritrovata stabilità della TM causata dal degrado artrosico, condizione indispensabile per avere una discreta funzione di opposizione del pollice. Più semplicemente il progredire dell’artrosi porta meccanicamente ad un “bloccare” in sostanziale buona posizione la base del metacarpo,diminuendo progressivamente i disturbi.In realtà possono passare diversi anni caratterizzati da intensi disturbi funzionali,prima che l’eventuale blocco naturale della articolazione porti alla remissione sintomatologica.
Si assiste ad una progressiva perdita di stabilità della TM che si accompagna ad una sintomatologia dolorosa nelle fasi iniziali presente solo in occasione di sforzi prensili specie se coinvolgenti il pollice in adduzione e l’indice. Le limitazioni funzionali compaiono classicamente “a freddo” tendendo la funzione a migliorare non appena l’articolazione si “scalda” con il movimento.
Le normali attività quotidiane possono essere disturbate come strizzare un panno o svitare un barattolo. E’ un classico il lamento della casalinga che ricorda sospirando i numerosi piatti rotti durante il lavaggio a mano degli stessi a causa della rizoartrosi.
L’evoluzione della malattia porta ad una progressiva limitazione della forza di prensione ed ad un peggioramento dell’aspetto radiografico per cui sono state proposte numerose classificazioni che definiscono i vari quadri di malattia e che prendono in considerazione i sintomi clinici, i disturbi riferiti,la forza di presa e l’aspetto radiografico. Obiettivamente il sintomo classico è la sublussazione dorsale del metacarpo che si accompagna alla conseguente deformazione del profilo morfologico della base del pollice.Questa zona è classicamente dolente alla pressione digitale diretta e ai tentativi di mobilizzazione passiva compiuti dall’esaminatore (Grinding test).
La diagnosi
La diagnosi è semplice e non invasiva, basata sulla classica sintomatologia descritta e sull’aspetto radiografico caratterizzato dal restringimento della rima articolare per riduzione di spessore delle cartilagini e sclerosi dell’osso subcondrale. Come in ogni forma artrosica è possibile la presenza di ostefiti e cavità geodiche. E’ frequente il riscontro specie nei soggetti giovani di intensa sintomatologia dolorosa con evidente deficit funzionale accompagnato da segni radiografici assai modesti. Al contrario spesso soggetti anziani riferiscono una storia, lontana nel tempo, di dolori classici da rizoartrosi andati incontro a remissione lenta e spontanea negli anni che si accompagna a quadri radiografici caratteristici di grave malattia. E’ utile precisare come frequentemente la rizoartrosi si accompagna ad artrosi delle vicine articolazioni tra i vari ossicini carpali configurando nelle fasi avanzate di malattia quadri definiti di panartrosi carpale.
A parte le solite terapie palliative fisiche (US e TENS) e mediche (FANS), caposaldo del trattamento INCRUENTO è l’uso di tutori che abbracciano la TM lasciando libero il polso e la interfalangea del pollice. Questi tutori possono essere usati con beneficio nelle ore notturne e devono essere sempre presi in considerazione nel trattamento delle fasi iniziali di malattia. Non è raro il riscontro di remissione,anche per lungo tempo della sintomatologia dolorosa, a seguito di uso continuativo, anche solo notturno, del tutore. La decisione se proseguire con il trattamento incruento o consigliare la terapia chirurgica spetta al medico di comune accordo con il paziente. Rispetto a qualche anno fa soltanto, le possibilità chirurgiche attuali permettono di ampliare il panorama delle indicazioni, avendo a disposizione varie opzioni individualizzate sulle richieste dei pazienti e modulate sulle destinazioni d’uso della mano interessata.
Il trattamento chirurgico
Il trattamento chirurgico può avvalersi di tecniche di sostituzione protesica (in via di progressivo abbandono) di artrodesi (blocco chirurgico in “buona posizione”della TM) e di artroplastiche con interposizione tendinea. L’abbandono del tentativo di protesizzazione della TM nel trattamento chirurgico della rizoartrosi deriva dalla impossibilità di mantenere stabile nel tempo l’impianto,sia esso in silicone usato come spaziatore, sia esso costituito da materiali diversi e usato come impianto protesico nel senso stretto del termine. Il razionale della sostituzione protesica, basato sul mantenimento della normale articolarità, veniva dunque pagato in termini di risultati con un’alta percentuale di instabilità dolorosa degli impianti e conseguente difficile tentativo di ripresa chirurgica della nuova problematica spesso peggiore della iniziale. Per anni si è tentato di ottimizzare tecniche chirurgiche di artrodesi della TM capaci di risolvere il problema della rizoartrosi dolorosa. Si è passati dalla sintesi della artrodesi con fili metallici sottili e incrociati a sintesi più sofisticate con miniplacche e viti di calibri dimensionali svariati e di leghe metalliche diverse fino ad arrivare a cambre a memoria di forma (in grado cioè con il calore di aumentare la forza di compressione sui segmenti ossei). Indipendentemente dai dettagli tecnici e dalla possibilità di arrivare a consolidazione della artrodesi in poche settimane di immobilizzazione, l’artrodesi porta ineluttabilmente ad un sovraccarico funzionale, per vicariare durante l’opposizione del pollice la quota di movimento dipendente, in origine, dalla TM. Considerato la frequente associazione con artrosi specie della trapezioscafoidea si capisce come l’artrodesi è destinata nel tempo a riservare eventuali spiacevoli sorprese. Avendo alle spalle esperienze di anni di artrodesi posso con tranquillità rassicurare i pazienti portatori di artrodesi della TM in quanto l’eventuale evoluzione peggiorativa è molto lenta nel tempo. Le perplessità sui risultati di due filosofie chirurgiche diametralmente opposte come la protesizzazione o l’artrodesi della TM, hanno spinto i ricercatori a sviluppare tecniche diverse definite di artroplastica in sospensione tendinea. Si basano sulla escissione del trapezio ponendo dunque drastica fine ai conflitti meccanici dello stesso con il primo e talvolta secondo metacarpo, con il trapezoide e con lo scafoide. La stabilità del primo metacarpo viene affidata ad ancoraggi, fatti con tecniche diverse,di tendini viciniori ( il più usato è l’abduttore lungo del pollice) al tendine del flessore radiale del carpo che si inserisce in maniera solida sulla base del secondo metacarpo e dunque in prossimità della parte profonda del trapezio. La maggior parte dei cultori di questa materia praticamente avevano abbandonato gli interventi di sostituzione protesica in quanto gravati da alta percentuale di insuccesso ed erano restii a consigliare l’artrodesi , intervento ritenuto aggressivo sulla funzione. La tenoartroplastica in sospensione, con tutte le sue varianti di tecnica, sembrava dunque porsi nel giusto mezzo. Penso sia giusto operare una importante correzione di rotta, frutto di una vasta esperienza diretta pluriennale sugli interventi di plastica in sospensione, pur essendo profondamente convinto che nel lungo periodo (anche oltre gli otto/dieci mesi) i risultati diano ragione alla tecnica con ripristino totale della fisiologica articolarità con scarso o assente dolore e con forza prensile praticamente conservata. Il punto è che i pazienti operati di tenoartroplastica in sospensione si lamentano più o meno intensamente della complicanza classica di questo trattamento chirurgico vale a dire della tendinite del flessore radiale del carpo che più o meno intensamente accompagna per molti mesi il decorso postoperatorio di un ‘alta percentuale di pazienti. Al contrario è esperienza comune e condivisa che i soggetti sottoposti ad artrodesi effettuata con sintesi di superficie si lamentano della eventuale evoluzione in pseudoartrosi solo fino alla rimozione obbligata dei mezzi di sintesi usati per il tentativo di artrodesi. Infatti, dopo questo semplice intervento,di solito eseguibile in anestesia locale per infiltrazione , i pazienti sono più che soddisfatti di quella sorta di nuova articolazione che, pur non voluta dal chirurgo, si è venuta a formare. Praticamente la pseudoartrosi del tentativo di artrodesi della TM da complicanza dell’intervento si è trasformata in trattamento definitivo ed ottimamente accettato dal paziente. L’idea innovativa è stata quella di introdurre una tecnica chirurgica che miri ad ottenere immediatamente la formazione di un tessuto fibroso tra metacarpo e trapezio che consente una pseudoarticolarità fisiologica in assenza di dolore e non secondariamente a falliti tentativi di artrodesi. Per queste ragioni ho chiamato questa tecnica: PSEUDOARTRODESI.
La tecnica è stata ritenuta originale e, dopo la presentazione al 44° Congresso nazionale di Chirurgia della mano di Milano nel 2006 veniva pubblicata sulla rivista della stessa società (SICM Milano 2006). In seguito la tecnica è stata pubblicata su diverse riviste scientifiche italiane e estere. Con piena soddisfazione poi è stata pubblicata sulla BIBBIA della chirurgia della mano mondiale ” The Journal of Hand Surgery ” in collaborazione con il Prof. Sansone dell’Università degli studi di Milano.
Tecnica attuale di pseudoartrodesi TM
Con questa tecnica non ci sono sovraccarichi di funzione all’articolazione a monte della TM e cioè la trapezioscafoidea (TS) rendendo peraltro più semplice l’osteotomia dei versanti articolari contrapposti della TM. Infatti quando si mira a ricercare una artrodesi alla TM bisogna orientare i tagli osteotomici in maniera da far combaciare completamente le superfici articolari che il chirurgo rende piane tenendo sempre presente l’orientamento finale nei tre piani dello spazio che assumera’ la punta del pollice. Durante l’opposizione del pollice alle dita lunghe l’artrodesi TM determina un trasferimento delle sollecitazione flessorie dalla TM stessa alla TS, con conseguente usura articolare di quest’ultima nel lungo periodo; inoltre non è facile bloccare in buona posizione la TM ed in ogni caso quello che si ottiene è definitivo e spesso, a cute chiusa, non rispondente all’atteggiamento ritenuto ottimale per cui il paziente può lamentarsi di una adduzione eccessiva e conseguente difficoltà nelle prese cilindriche di oggetti ingombranti o al contrario lamentare una abduzione del metacarpo tale da non permettere l’opposizione del pollice alle dita lunghe ulnari oppure ancora lamentarsi della salienza della testa del primo metacarpo quando appoggia la mano aperta su superficie piatta per appoggiarsi o per “spingere”. Ragionando su questi concetti in realtà sussurrati anche da altri Colleghi durante colloqui privati ma mai affermati con decisione e piglio scientifico durante relazioni congressuali , sono arrivato alla conclusione che forse la chiave di volta del trattamento chirurgico della rizoartrosi può essere il conseguimento di una artrodesi o una neoartrosi a seconda di come valutiamo movimento e dolore nel postoperatorio. Il razionale sta nell’eseguire una resezione delle cartilagini articolari estremamente contenuta e rigorosamente con sega oscillante per riuscire ad asportare la minima quantità di cartilagine degenerata e fonte nocicettiva onde non avere problemi di accorciamento del raggio digitale ( Fig. 1 ). La necrosi ossea superficiale segnalata dai fautori dell’osteotomia con osteotomo in realtà non è un problema in quanto non siamo, come già detto, obbligati a ricercare una artrodesi. Nel corso dell’intervento vengono asportati gli osteofiti specie dal versante trapeziale.
Effettuate le resezioni ossee procediamo alla stabilizzazione temporanea con il mezzo di sintesi più economico e di più facile uso che è il filo di Kirschener facendolo passare dall’interno della superficie articolare del primo metacarpo all’esterno circa un cm prossimale alla articolazione metacarpofalangea (MF) facendo attenzione a non sottendere la cute durante la fuoriuscita dei due fili che posizioniamo incrociati per evitare fenomeni di intolleranza agli stessi durante il movimento in flessione della MF. A questo punto riduciamo l’articolazione TM e spingiamo i fili nel trapezio facendo attenzione a non sorpassare la TS per cui questo passaggio necessita di un breve controllo in scopia ( Fig. 2 ).
E’ fondamentale fare attenzione a non oltrepassare con i fili la TS per poter autorizzare subito il completo movimento in opposizione del pollice alle dita lunghe senza evocare dolore e senza “arare” con la punta dei fili la superficie articolare dello scafoide. Durante l’accesso chirurgico cerchiamo di mantenere un lembo capsulare risuturabile da entrambi i versanti articolari. A questo punto l’intervento è finito e ci limitiamo ad un bendaggio soffice con cotone di Germania e benda elastica autoadesiva autorizzando immediatamente il movimento attivo di tutte le dita. L’intervento viene eseguito in regime AMBULATORIALE con anestesia di plesso per cui il pz. lascia la sala operatoria circa trenta minuti dopo la fine dell’intervento. Praticamente in circa un’ora il pz. esegue l’intervento e lascia la sala operatoria. Dopo una settimana rimuoviamo il bendaggio ed invitiamo il paziente ad un completo movimento nell’arco non doloroso, permettendo anche movimenti di opposizione del pollice alle dita lunghe ( Fig. 3 ).
Non procedo alla confezione di tutori o bendaggi in quanto la stabilizzazione con i fili,effettuata secondo la tecnica descritta, assicura un ottimo movimento in assenza di dolore. Dobbiamo solo essere precisi nella emergenza cutanea dei fili per non creare tensioni sulla cute. Da qualche anno preferisco piegare due volte a 90° ogni singolo filo che emerge dalla cute per poter poi ruotare i due fili a potersi unire in sovrapposizione.Bloccare in solidità con banali steri strip i due fili garantisce una tenuta ottimale degli stessi diminuendo drasticamente l’irritazione della pelle intorno ai fili.Questo semplice ed artigianale espediente adatto ai fili percutanei rende gli stessi più tollerati durante il movimento che, come sempre, in tutti i distretti articolari per quanto mi riguarda, viene incoraggiato immediatamente dopo la ripresa della motilità post blocco plessico. Sono fermamente convinto che per una buona e rapida ripresa funzionale sia fondamentale una medicazione “snella“ e contemporaneamente stabile negli ancoraggi cutanei usando i nuovi cerotti adesivi in commercio. Proteggo poi con un guanto di cotone la medicazione fino alla rimozione dei fili ( Fig. 4 ).
Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3
Fig. 4
Secondo la nuova tecnica preferisco piegare a go° i fili di K immediatamente dopo l’emergenza cutanea in modo da poterli rendere solidali con un semplice steril streep. Questo semplice accorgimento aumenta nettamente la stabilità dell’impianto provvisorio e la conseguente tollerabilità cutanea.
Solidarizzazione dei due fili di K. L’aumentata tollerabilità che si ottiene permette, quando si vuole perseguire una sorta di artrodesi TM. di mantenere i fili di K anche per quaranta/sessanta giorni.
Stabilità dell’impianto provvisorio in tutte le proiezioni radiografiche.
Aspetto radiografico di controllo intermedio della nuova tecnica.
Secondo la nuova tecnica preferisco piegare a go° i fili di K immediatamente dopo l’emergenza cutanea in modo da poterli rendere solidali con un semplice steril streep. Questo semplice accorgimento aumenta nettamente la stabilità dell’impianto provvisorio e la conseguente tollerabilità cutanea.
Solidarizzazione dei due fili di K. L’aumentata tollerabilità che si ottiene permette, quando si vuole perseguire una sorta di artrodesi TM. di mantenere i fili di K anche per quaranta/sessanta giorni.
Stabilità dell’impianto provvisorio in tutte le proiezioni radiografiche.
Aspetto radiografico di controllo intermedio della nuova tecnica.
Se nel corso delle due o tre settimane successive il paziente non lamenta dolore ed ha un ottimo movimento globale tollerando i due fili possiamo anche “accontentarci“ di una artrodesi specie se trattasi di persona anziana o a forte richiesta funzionale. In questo caso cerchiamo di mantenere i fili il più a lungo possibile, di solito fino ai 40 – 60 gg. Quando invece i fili sono scarsamente tollerati alle emergenze cutanee o si tratta di pazienti relativamente giovani o il movimento del metacarpo non ci sembra fluido per eventuale deficit della pronazione che pareva ottimale al momento della sintesi, cerchiamo di togliere i fili anche dopo circa trenta giorni, perseguendo il raggiungimento di una neoarticolazione dotata di un movimento in grado di compensare il difetto eventuale di rotazione. In conclusione riteniamo la tecnica estremamente più semplice da eseguirsi rispetto alle tradizionali in quanto si possono correggere in itinere eventuali errori di posizione e, particolare assolutamente non trascurabile, non si lasciano mezzi di sintesi a livello del focolaio di osteotomia o di artrodesi. Il postoperatorio è caratterizzato da una ripresa funzionale rapida per le comuni attività quotidiane con risoluzione della sintomatologia dolorosa, che era l’argomento più a favore della artrodesi, con una articolarità che in caso di pseudoartrodesi è fisiologica.
Tutte le tecniche chirurgiche ovviamente possono portare ad una complicanza.L’importante a mio parere è la bassa frequenza di complicanze associata alla possibilità di semplice revisione per avere, malgrado l’inconveniente, alla fine un buon risultato. Nello specifico il problema si pone nel trattamento della rizoartrosi con protesi anche di recente introduzione in Pirocarbonio piuttosto che con interventi di asportazione del trapezio e successiva tenoartroplastica in sospensione.
Nel caso di protesi spesso la lassità di partenza le rende instabili e conseguentemente dolorose per cui vanno rimosse con la difficoltà di non avere osso sufficiente per una semplice plastica. Nel caso mostrato ad esempio ho praticato pseudoartrodesi sul doppio versante ( trapeziometacarpale e trapezioscafoideo ) conseguendo un ottimo risultato funzionale rispetto alla difficile condizione di partenza.
Tutte le tecniche chirurgiche ovviamente possono portare ad una complicanza. L’importante a mio parere è la bassa frequenza di complicanze associata alla possibilità di semplice revisione per avere, malgrado l’inconveniente, alla fine un buon risultato.Nello specifico il problema si pone nel trattamento della rizoartrosi con protesi anche di recente introduzione in Pirocarbonio piuttosto che con interventi di asportazione del trapezio e successiva tenoartroplastica in sospensione.
Nel caso di protesi spesso la lassità di partenza le rende instabili e conseguentemente dolorose per cui vanno rimosse con la difficoltà di non avere osso sufficiente per una semplice plastica. Nel caso mostrato ad esempio ho praticato pseudoartrodesi sul doppio versante (trapeziometacarpale e trapezioscafoideo) conseguendo un ottimo risultato funzionale rispetto alla difficile condizione di partenza.
Dopo una tenoplastica in sospensione poi, a fronte di un collasso della base metacarpale diventa quasi obbligatorio impiantare una protesi spacer in pirocarbonio per ricreare l’altezza iniziale del raggio metacarpale piuttosto che altri tipi di interventi da individualizzare sul singolo paziente ( Thight Rope ad esempio )
Grave perdita di altezza del primo raggio metacarpale dopo tenoartroplastica in sospensione in soggetto lasso.
Altro caso di ptosi del primo metacarpo dopo asportazione del trapezio. Grave fallimento della tenosospensione con appoggio doloroso della base metacarpale sullo scafoide.
Ennesima complicanza di collasso metacarpale dopo plastica in sospensione.
Grave perdita di altezza del primo raggio metacarpale dopo tenoartroplastica in sospensione in soggetto lasso.
Altro caso di ptosi del primo metacarpo dopo asportazione del trapezio. Grave fallimento della tenosospensione con appoggio doloroso della base metacarpale sullo scafoide.
Ennesima complicanza di collasso metacarpale dopo plastica in sospensione.